Ginette Kolinka, la vergogna di essere nudi - Di Raffaella Calandra
Voci della memoria - Un podcast de Radio 24
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"Io stessa lo racconto, lo vedo. E penso che non sia possibile essere sopravvissuti a cose simili. Vedo e sento. Ma voi, voi vedete?"In tutta la vita del dopo, Ginette Kolinka ha visto e sentito in modo diverso. Diverso, da prima. Prima della guerra, prima dei nazisti, prima di Birkenau e prima della perdita di quello che era. Ultima di sei sorelle, nasce nell'anno dei Giochi Olimpici di Parigi nel 1925, in una modesta famiglia ebrea, non praticante, i Cherkasky . Il padre, reduce della Grande Guerra, ha un laboratorio di impermeabili; la madre- originaria della Romania- è casalinga. E lei, insieme alle sorelle e poi al piccolo Gilbert, che arriverà 7 anni dopo, respira comunque un po' dell'aria di quegli anni "struggenti della festa mobile", per dirla con Hemingway.A lungo, anche quando la guerra, insieme alle leggi per gli ebrei, cambia tutto e loro scappano ad Avignone, pensa comunque che nulla di grave possa mai succedere. Ginette lo continua a credere anche dopo la cattura, a diciannove anni, il 13 marzo 1944, insieme al padre e al fratellino. Le sorelle e la madre, no. Ma è quando si ritrova completamente nuda, in una bolgia di corpi a Birkenau, con un tatuaggio sul braccio, che comprende davvero che quello non è solo un campo di lavoro. Fino a maggio del 45 cambia campi, lavora in fabbrica, lotta per sopravvivere, fino alla liberazione.I ricordi di quello che ha vissuto restano però a lungo sepolti, nei suoi silenzi, quando torna a Parigi. Proprio nella vecchia casa, dove ritrova la madre e le sorelle. Restano dietro un muro per anni, insieme al rimorso di aver spinto l'anziano padre e il fratellino, all'arrivo a Birkenau, verso dei camion che – scoprirà poi- conducevano direttamente alle camere a gas. "Da 75 anni, convivo e lavoro su questo senso di colpa", confida in un'intervista ad Alessandra Tedesco, a partire dal suo libro "Ritorno a Birkenau" (Ponte alle Grazie).Il bisogno di ricordare, di rivivere e di condividere quello che ha vissuto inizia per caso e dopo una telefonata della Fondazione Schindler. Da allora, Ginette Kolinka non ha mai smesso di accompagnare i giovani a vedere e sentire quello che è stato. Direttamente tra quelle baracche del campo di Birkenau, dove lei, alla loro età, è stata schiava, affamata e violata nella sua intimità.